Letteralmente travolti da un orda di cibo, bombardati da quantità assurde dello stesso fatte passare per “tradizioni”. Siamo nelle più totali invasioni barbariche di “roba da mangiare”.
Ma quello che stiamo perdendo (e che forse abbiamo già perduto) è la cultura del cibo che del marketing…un tempo…non sapeva davvero che farsene!!!
Facebook, Youtube, Instagram, TikTok, Pinterest, tutti i social che io ancora non ho avuto facoltà di conoscere ma che esistono lo stesso e non solo, anche la tv ne è piena, mille, duemila e più programmi legati al cibo, i palinsenti inziano a trasmettere programmi che parlano di cucina già dalla mattina alle 07 e finiscono la sera dopo cena tardi. Un bombardamento mediatico continuo, onnipresente, cucinano tutti, molti non sanno neanche cosa, se è vero che tutti mangiamo almeno tre volte al giorno, è altrettanto vero che tutto questo accanimento culinario ha forse superato un po’ il troppo.
La riflessione mi è venuta in mente in questi giorni che precedono le Festività Pasquali, sfogliando tra le stories dei più svariati account (anche di quelli che non hanno come vocazione la cucina) si vede di tutto. Menù per pranzi da asporto da almeno 10 piatti diversi+dolce+selezioni di vini, box per le colazioni di Pasqua e ogni ben di Dio in bella mostra, dolce, salato, cioccolato, vini, liquori, colombe dalle dimensioni stroboscopiche farcite con tre/quattro gusti di gelato diversi, chi più ne ha più ne metta e, quasi su tutto, spopola una delle espressioni più abusate del momento “ritorno alla tradizione”!
È stato in una della mie camminate (quasi) giornaliere di più o meno 8 km che mi sono trovata a riflettere su questa frase, “ritorno alla tradizione”, prendendo in esame il caso, ad esempio, della colazione di Pasqua.
Era ricchissima, nelle Marche come anche in altre regioni italiane, ma c’era un perché, anzi, diversi perché, te li racconto qui di seguito e mi farà piacere sapere se sei d’accordo.
Ciambella strozzosa, pizza di formaggio, pane, salame, ciauscolo, pecorino, vino, le colazioni della mattina di Pasqua nelle Marche erano leggendarie. quasi interminabili ma, “c’era molta logica in questa follia”. Si arrivava da quaranta giorni di Quaresima vissuti con religiosa austerità durante i quali non si consumavano grassi animali, non si mangiava carne, si digiunava dalla sera del Venerdì Santo fino alla mattina della Domenica di Pasqua nel rispetto della Passione di Cristo che veniva celebrata in preghiera, durante la lunga notte della Vigilia del Sabato di Pasqua che terminava la mattina seguente alle 06:00. Non era vita gastronomicamente facile anche per la maggior parte degli altri periodi dell’anno visto che, per la stragrande maggioranza delle famiglie (sia contadine, sia quelle all’interno dei centri abitati), il carico alimentare inteso come quantità di cibo in dispensa non era neanche lontanamente al pari di quello che oggi abbiamo a disposizione 365 giorni l’anno. Il lavoro fisico che si faceva un tempo era smisuratamente maggiore rispetto a quello di oggi e, in generale, il modo di lavorare attuale, anche per quanto riguarda i lavori dove si richiede una fisicità maggiore, è completamente cambiato rispetto anche a solo 50/60 anni fa.
Inoltre, i digiuni praticati durante la Quaresima avevano un senso proprio salutistico, oltre che religioso, grazie agli effetti positivi che può apportare praticarli periodicamente. Preparavano il corpo ad affrontare la nuova stagione, detossindadolo, sfiammandolo, rafforzando il sistema immunitario. Iniziavano, infatti, subito dopo gli eccessi del Carnevale, quindi con il Mercoledì delle Ceneri, per terminare, appunto, la Domenica di Pasqua.
Quando iniziamo a cambiare le nostre abitudini alimentari? Con il boom economico, nel 1964 viene abolita la mezzadria, le campagne si spopolano, le fabbriche si riempiono, la grande distribuzione inizia il suo “percorso fantastico” di far cambiare completamente i nostri consumi a tavola, molti dei prodotti agricoli che si usavano prima vengono cambiati con altri dalle più alte rese industriali, molti altri non si mangiano più perché “ricordano la fame”, le nostre credenze si rimpinzano, noi anche per svuotarle. Il cibo cambia il suo scopo primario e l’unico che dovrebbe in realtà avere cioè quello di essere il carburante che ci permette una vita sana e longeva e si trasforma in oggetto di marketing, il più grande core business del marketing attuale.
Nell’utilizzare il termine “tradizione” ci si riferisce anche ad un serie di usi e costumi che hanno attecchito e sono radicati in determinati periodi storici perché se ne sono verificate delle condizioni ambientali e sociologiche affinché questo potesse avvenire.
Quindi (e qui arrivo al concetto che volevo esprimere fin dall’inizio), pur essendo tutti d’accordo sulla necessità inappuntabile e sacrosanta di mantenere in vita e continuare a tramandare ricette che non sono semplicemente “modi di cucinare qualcosa” ma veri e propri “passi di Vangelo”, rivendico l’altrettanto giusta e indispensabile (secondo me) opportunità di rivedere le quantità da ingerire proprio in virtù degli attuali stili di vita e di società. Altrimenti dovremmo anche, ad esempio, praticare di nuovo un integerrimo periodo di Quaresima, avere in casa le stesse quantià di cibo presenti nelle dispense dell’epoca, lavorare come si lavorava un tempo.
Non da meno, sarebbe davvero stupendo allentare un po’ il colpo di tutto questo “cibo spettacolarizzato” e tornare a parlare di “cibo come cultura”.
Basterebbe tornare, a questo proposito, al semplice, ma non affatto scontato, concetto che il cibo è nutrimento e sussistenza e non il fenomeno da baraccone che è ridotto ad essere da qualche anno a questa parte, che avere attenzione al prodotto e alle quantità vuol dire mangiare meno ma forse meglio, che tutto questo accanimento mediatico ha fatto perdere valore ad una cosa che è sacra e, per molte popolazioni del mondo, ancora assurdamente non disponibile.
Del resto si sa, qualsiasi cosa in natura (e nella vita in generale), se facilmente accessibile o spiattellata continuamente in prima pagina, ha come risultato quello di valere meno.
È quello che è successo nella parte di mondo (dove ho la fortuna di trovarmi anche io) nella quale il cibo c’è, è accessibile, ne abbiamo talmente tanto da poterlo sprecare e da poter essere ineducati nell’utilizzarlo. Non siamo stati sempre così, ci siamo disabituati ad essere educati dal punto di vista alimentare proprio a causa di questa grande abbondanza di cibo.
E questo diventa poi anche il motivo per cui, ti trovi a dover discutere con un vegetariano che ti dice che il tofu che arriva dall’altra parte del mondo è meglio di una bistecca comprata da un allevatore di cui conosci il sistema con cui tratta i suoi animali, vedi zucchine cucinate durante tutto l’anno, parmigiana di melanzane preparata per il pranzo di Natale insieme a piatti di asparagi e fragole, etc etc.
Quando ero più bambina mi ricordo che mio padre dalla campagna portava della frutta, mele soprattutto, inguardabile. Ogni volta gli dicevo che era meglio quella del supermercato perché erano perfette e tutte uguali. La risposta era sempre la stessa, “non essere stupida, non si mangia con gli occhi ma con la bocca, devi capire a distinguere il gusto delle cose non l’apparenza”.
Negli anni, con la maturità, ho imparato a far mia questa frase anche per quanto riguarda le persone.
Negli anni, con la maturità, di questi insegnamenti, lo ringrazierò finché avrò vita.
Buon Cibo a tutti!
Ultra-saggia considerazione😉👌
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Grazie mille
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Sante parole condivido tutto un abbraccio a presto
Nicoletta
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Eh stiamo facendo un po’ troppo. Bisognerebbe ridimensionarsi un po’. Non vedo l’ora di vederti.
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