C’è un gesto che nonno Dario ripete spesso quando vede concretizzarsi le idee

di Nicola, Silvia e Martina riguardo la gestione dell’azienda agricola che porta il suo nome. È quello di congiungere le mani (come si fa quando si prega) agitandole come a dire “ma che cosa state facendo?” È stato lui

ad avviare l’azienda, siamo negli ’60, la mezzadria finisce nel 1964 e lui rileva un terreno di 10 ettari dal proprietario del campo dell’epoca. Sono gli anni in cui l’industria alimentare legata alla grande distribuzione la farà da padrona sull’agricoltura e anche lui se ne lascia conquistare. Utilizza la sua proprietà per delle coltivazioni intensive come barbabietola da zucchero, grano e altri prodotti, tutti in grado di garantire delle alte rese industriali grazie anche all’aiuto della chimica usata per il terreno che consente di non rispettare le rotazioni. Nulla di sconvolgente, in quegli anni è la norma, il boom economico è totale, molte fasi dell’agricoltura e molti alimenti che prima la società era solita usare vengono trascurati se non, addirittura, dimenticati. Per tanti motivi, perché ricordano le miserie della mezzadria, perché il potere di acquisto della famiglia media italiana cresce e quindi si può comprare di più e finalmente diversificato, perché il gusto dei nuovi prodotti industriali è studiato a tavolino per conquistare il palato di chi lo assaggia. Tutto scorre, quindi, fino a quando nonno Dario, dopo molti anni di lavoro, capisce che è tempo di un po’ di meritato riposo anche per i suoi 10 ettari di terreno che decide di lasciare in sodo (cioè senza coltivare). Da questa decisione passano 5 anni dopo i quali arriva il contatto di un grande produttore che vuole concludere un contratto di affitto per quei 10 ettari ed è in questo momento che entrano in gioco Nicola, Silvia e la loro cugina Martina.

È il 2014 e dopo un’attenta riflessione decidono di prendere loro in mano la gestione del terreno, facendolo secondo un concetto preciso, che rimescola tutte le carte fino a quel momento giocate da nonno Dario (loro nonno materno). Riprendono le rotazioni che erano in voga in agricoltura dai tempi del Medioevo, il campo

viene diviso in tre parti che si alterneranno negli anni nella coltivazione di, in una un cereale, in un’altra un legume e la terza che viene lasciata a maggese (cioè in sodo). Hanno facoltà di iscriversi subito alla categoria “Biologico” perché la terra, grazie “alla pausa” di nonno Dario, ha già riposato per i tempi necessari per arrivare a questo obiettivo e fratello e sorella partono per questa nuova avventura. È il 2014, da allora sono trascorsi sette anni che hanno visto,

Nicola e Martina coinvolti più nella parte agricola e Silvia più in quella commerciale e di comunicazione.

Il risultato è un buon posizionamento sul mercato che però, chiaramente, auspicano di poter migliorare restando fedeli a quel concetto di fondo dal quale sono partiti e che li unisce ancora, lavorare secondo un principio di agricoltura sostenibile per rispettare il terreno, l’ambiente e dare vita ad un prodotto buono e salutare. Coltivano farro, lenticchia,

ceci, orzo, miglio, tutto nella splendida cornice del territorio di Cingoli (il balcone delle Marche) e sotto la “super visione” dell’antico casale

costruito sulla proprietà (un tempo casa di nonno Dario) che, nei loro progetti futuri, sarà oggetto di una ristrutturazione che lo trasformerà in B&B e location per eventi e degustazioni. Il mio contatto con questa realtà è Silvia, nel nostro incontro siamo io, lei, i nostri caffè e il suo modo di raccontarmi tutta questa storia. Comincia con un “mah! siamo una realtà semplice! non c’è molto da dire”, il suo racconto è, onesto, appassionato, concreto e trasuda quella motivazione che sta nelle sua mente, in quella di Nicola, in quella di Martina, portare avanti un capitale di famiglia perché non venga gettato al vento il lavoro di nonno Dario facendo in modo, però, che da questo ne nasca un prodotto identitario della filosofia aziendale. Il discorso si snocciola tra mille aneddoti fino al fatto curioso (almeno secondo me) di aver comprato due trebbie, una del 1965 e una del 1967 a ragion veduta tutte e due. La prima è quella con la quale viene fatto il raccolto,

meno mastondontica di una moderna e quindi meno pesante, durante questa fase, che è la conclusiva della coltivazione,

non rovina il raccolto schiacciandolo esageratamente. La seconda, ahimé, è quella con il ruolo meno felice, il suo compito è “donare gli organi” alla prima in caso di rottura perché, essendo agée, trovare i pezzi di ricambio è difficile. Soltanto in un punto la conversazione tra me e Silvia ha avuto una attimo di cedimento :-)))), davanti alla questione “miglio”, :-))). Lei è vegetariana, lo mangia, ne è una grande appassionata, mi ha elencato una serie di ricette possibili. Io, boh, mi prendo del tempo per rifletterci su e poi alla fine, ne sono certa, le darò ragione. Per il resto il mio dubbio amletico sulla questione “se tutte le leguminose del mondo conosciuto vengano prodotte in quel fazzoletto di terra che è Colfiorito e Castelluccio o meno” è risolto. Anche nelle Marche c’è un’azienda che lo sa fare, lo vuole fare e lo fa bene.